
Riflettere su come abbiamo rapidamente cambiato il modo di comunicare, in queste settimane, è qualcosa che in molti fanno. Ma occorre farlo con uno sguardo più ampio, per trovare una visione differente e vedere un percorso più chiaro di quello che è stato, che è e che potrebbe essere.
Gli ultimi trent’anni hanno visto cambiamenti così epocali che si sono insinuati nelle nostre vite senza essercene accorti. Abbiamo cominciato da bambini, scambiandoci parole al parco, al pianerottolo con gli amichetti, affrontando gli imbarazzi e i filtri del telefonare a casa di qualcuno – cosa dire quando rispondeva un genitore, come mantenere i contatti più “segreti” se si doveva passare per quel filtro?
La telefonia mobile e i cellulari hanno ridotto un po’ la distanza: ci si poteva parlare senza passare per “i più grandi”, ma si doveva anche misurare le parole. I 160 caratteri degli sms rendevano la comunicazione preziosa, perché occorreva contenere le parole, studiarle e misurarle all’interno di uno spazio risibile.
Arrivarono poi IRC, ICQ e il più noto MSN: cominciavamo a stare al computer non solo per studiare e scrivere in maniera più ordinata le nostre ricerche – fatte ancora con l’enciclopedia sottomano – ma anche per chattare e scambiarci messaggi senza limiti di caratteri. Con le prime icone, le faccine per esprimere una sensazione…
Da lì ai social network il passo è stato breve: Facebook ci permetteva di restare in contatto più semplicemente anche con amici lontani ed era un ottimo archivio per le nostre foto – un archivio digitale, ma un domani cosa rimarrà di noi, senza foto stampate? – mentre Instagram era ed è in parte un mistero ancora per molti: non può essere un mero album di foto con gli amici, i profili personali appaiono non così diversi dalle pagine sponsorizzabili, raggiungere i like, gli algoritmi, le stories…
A cambiarci davvero la vita però sono state app come Whatsapp: zero vincoli di luogo, orario, lunghezza dello scritto. Liberi di scriverci prima, e registrare un messaggio vocale poi – perché chiamarsi stava diventando quasi una sorta di “invasione”, se non preannunciato. Ma potevamo comunicare immediatamente con persone che avevamo salutato pochi minuti prima, sentirci comunque vicini anche se lontani. La videochiamata era l’evento una tantum, al massimo per un colloquio di lavoro a distanza.
Avevamo una scelta.
In queste settimane, in questi mesi, però, è cambiato qualcos’altro: non abbiamo più avuto scelta. La distanza è stata – ed è, in buona parte – l’unico modo di comunicare. Se in casa qualcuno ha la febbre manda un messaggio a un convivente che possa dargli un sostegno, perché stare distanti è diventato fondamentale anche sotto lo stesso tetto. Figuriamoci fuori.
Ci siamo allontanati e ora dobbiamo riavvicinarci, tornare ad avere una scelta alla quale abbiamo rinunciato per settimane, isolandoci ma restando in contatto. Camminavamo sui marciapiedi, qualche mese fa, e non ci preoccupavamo troppo di chi era intorno: poteva capitare di urtarsi e l’unica cosa che dava fastidio era il non domandarsi reciprocamente scusa. Adesso, se incrociamo qualcuno sul marciapiede, uno dei due scende per prendere le distanze. Due amici che si incontrano per caso tengono comunque la mascherina sul viso e non si abbracciano, anche se non si vedono da tempo, perché in fondo non abbiamo certo sviluppato uno scudo nei confronti di un nemico invisibile. Proprio il non vederlo ci mette in difficoltà nel comunicargli attraverso, per riavvicinarci.
Quale sarà il prossimo passo? Torneremo indietro e a riavvicinarci o troveremo un’altra via di distanza?
Nota a fine testo: questo scritto è stato ispirato da un post che ho visto sulla mia bacheca di Facebook, a opera di qualcuno che ora non ricordo, ma ringrazio davvero molto per il pensiero che ha innescato.